Do ut des

Ero così persa in questa vita, troppo da fare, troppo da vedere e allo stesso tempo il nulla colonizzava la mia anima, i tramonti non smuovevano più l’emotività che un tempo alzava il mio sorriso, era come una nebbia che si era posata intorno allo strazio del mio cuore, era come se la mia anima si fosse dissociata dal mio corpo e si fosse persa in qualche angolo remoto, lungo il mio passato.
Avevo perso qualcosa o l’avevo seppellita nel profondo di me stessa ?
A volte per superare il male che abbiamo subito tendiamo a soffocare quella parte di noi, troppo debole, troppo insicura, troppo… qualcosa; che ci impedisce di vivere serenamente come abbiamo sempre fatto, ma la stessa parte, vulnerabile, della nostra anima, si rivela poi essere la stessa parte che ci permetteva di navigare nella vita in una sorta di felicità incondizionata.
Per evitare la sofferenza, per riuscire a emergere dall’acqua e tirare un sospiro di sollievo, a volte, si rende necessario annegare quella parte, in una sorta di do tu des: dove scambiamo la nostra vulnerabilità con una freddezza emotiva, per la quale gli accadimenti inquieti, sofferenti che avrebbero potuto demolirci ancora una volta, non toccano più la nostra emotività, ma di contro, si acquisisce l’incapacità di emozionarsi per le piccole cose, l’incapacità di camminare senza pensieri nella testa, perché è vero che il dolore non ci tocca più, ma nemmeno la gioia, si rende manifesta in noi, in una sorta di contratto emotivo assicurativo.
Non posso dire di aver agito sempre nel giusto modo: tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per privarmi del dolore, che ancora mi tiene sveglia la notte, che ancora percorre lunghe distanze nelle autostrade dei miei pensieri, in questa continua ricerca spasmodica di una soluzione ottimale tra felicità e sacrifici.