Autoconsapevolezza livellatrice

A volte ho la percezione di essere arrivata alla fine, non importa quanto mi interroghi, quanto tempo filosofeggi e mi addentri in introspezioni profonde per togliere la maschera al volto della vera natura umana, arrivo sempre a un limite invalicabile, che mi rende conscia della limitatezza della mia natura riflessiva.
Come se il mio stesso intelletto volesse dirmi «non sei così intelligente», come se volesse ricordarmi che sono schiava di un percentile in cui le persone sono consce dei propri limiti e autoconsapevoli abbastanza, da vivere nella sofferenza, il percentile della frustrazione: abbastanza sapienti da essere sofferenti, ma non abbastanza capaci da uscire dalla sofferenza.
A volte mi sento sotto scacco da me stessa, come se la consapevolezza di ciò che posso fare, mi abbia dato una qualche sorta di giustificazione a perpetrare nella bambagia, come se avessi tutte le risposte, ma allo stesso tempo non riuscissi a completare il puzzle delle dinamiche evolutive di questo mondo.
Il senso di solitudine e alienazione che si manifesta dentro di me, sempre più crescente, al pari dell’avvicinarsi a un vociare fragoroso di una folla indomabile, mi rende sensibile e insensibile allo stesso tempo, vincolata a questa ambivalenza, a ogni sorta di sentimento umano, a ogni interesse profondo, in un drammatico secondo di apatia, probabilmente psicosomatica, quasi fossi cosciente che il distaccamento fosse l’unica medicina valida, al male del mondo.
E alla fine non proferisco a me stessa nulla di nuovo ed edificante, e limitata da me stessa perpetuo in eterno questa eterna lotta, disperata e vorace, bramosa e spasmodica, di verità e di rivelazione inerente al mistero del mondo, alla trama, inestricabile, che è la vita; non giungo a nessuna risposta esplicativa, ma solo a più domande.
Il tempo è l’unico grande livellatore che potrà scandire qualcosa di nuovo col suo venire.